domenica 15 novembre 2009

Palazzo Penne, Bassolino e Ciriello verso il processo

NAPOLI - Ci sono alcune richieste di archiviazione sul tavolo del procuratore aggiunto del pool Ecologia, al termine delle indagini sul mancato restauro di Palazzo Penne. Una mossa da parte del pm Pasquale Ucci che lascia trasparire la volontà di esercitare l’azione penale e di chiedere quindi il processo a carico degli altri due indagati, vale a dire il governatore della Campania Antonio Bassolino e il direttore dell’Istituto universitario Orientale Pasquale Ciriello. Raggiunti a maggio del 2008 da un avviso di chiusa inchiesta, gli indagati si sono difesi dall’accusa che rimanda all’articolo 733 del codice penale, nell’ipotesi di «presunto danneggiamento di cose d’interesse storico e artistico per mancata azione di restauro». Vicende tutte da verificare, in un’inchiesta che ha convinto la Procura di Napoli a chiedere l’archiviazione per due esponenti dell’ufficio Demanio e Patrimonio della Regione, Francesco Vitale e Luigi Rauci, destinata comunque ad un probabile accertamento in aula. L’accusa rimanda comunque a un reato colposo, di natura contravvenzionale, per mancati interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria del palazzo. Al centro dell’attenzione, la delibera con la quale la Regione acquistava Palazzo Penne e stipulava un accordo con l’Orientale. È il 3 marzo del 2004, quando allo stesso tavolo si seggono esponenti delle istituzioni locali. Vengono fissate le linee guida di una strategia con cui la Regione concedeva in comodato d’uso il palazzo all’istituto universitario. L’edificio costò alle casse regionali qualcosa come cinque milioni di euro e, secondo stime più o meno approssimative, ce ne sarebbero voluti altri cinque per restaurarlo e consegnarlo alla platea di docenti e alunni, in vista della realizzazione di un polo umanistico collegato con le altre sedi universitarie. Da allora, però, dalla data dell’accordo Regione-Orientale il gioiello dell’umanesimo napoletano è rimasto quello che era, vale a dire un edificio che cade a pezzi, sbiadito ricordo dei tempi di re Ladislao. Tra i testi d’accusa, anche l’ex sovrintendente Mario De Cunzo, sentito nel corso della fase preliminare delle indagini dallo stesso pm Ucci. Difeso dal penalista Giuseppe Fusco, il governatore Bassolino ha sempre rimarcato (anche in altre vicende giudiziarie) l’opportunità di distinguere indirizzo politico e gestione amministrativa, una linea di demarcazione sempre seguita a mo’ di stella polare, fino a presentare una memoria difensiva dopo la conclusione formale dell’inchiesta.

articolo pubblicato da "Il Mattino" il 14 novembre
pezzo a firma di Leandro Del Gaudio

sabato 14 novembre 2009

Processo breve, 'salvi' Bassolino e Moggi




NAPOLI - Se il disegno di legge sul “processo breve” immaginato dall’esecutivo Berlusconi per accelerare i tempi della giustizia dovesse entrare in vigore, a beneficiare della prescrizione non sarà solo il premier. A trarne vantaggio saranno anche esponenti del centrosinistra, che, loro malgrado, saranno “debitori” nei confronti del “nemico” politico per il “fosso” scansato. Tra chi potrebbe dover ringraziare il Cavaliere di Arcore spicca il nome del Governatore della Campania Antonio Bassolino (nella foto a sinistra), attualmente sotto processo insieme ad altre 27 persone (tra le quali i vertici del colosso Impregilo) per le irregolarità nella gestione dell’emergenza rifiuti riscontrate negli anni 2001- 2005. Il ddl depositato ieri in Senato dal Pdl prevede infatti che la durata massima per la celebrazione del processo di primo grado non superi i due anni (la regola non vale per chi ha precedenti penali), ma questi due anni vanno calcolati a partire dal deposito della richiesta di rinvio a giudizio. Significa che, nello spazio di 24 mesi, vanno celebrate l’udienza preliminare e l’istruttoria dibattimentale e va emessa sentenza (di condanna o di assoluzione). Dal momento che alla tanto agognata nuova legge si darà valore retroattivo, il processo sui rifiuti sarebbe destinato a chiudersi per estinzione il giorno dopo l’entrata in vigore della normativa. La richiesta di rinvio a giudizio per Antonio Bassolino e gli altri coimputati è stata formulata il 31 luglio 2007. E, visto che la matematica non è un’opinione, in base alla nuova legge sarà inutile che i giudici della quinta sezione penale del tribunale di Napoli proseguano nella trattazione del processo considerato che il processo sarebbe “finito” il 31 luglio scorso. Ma Bassolino potrebbe non essere il solo “beneficiario” di questo “disegno” di legge. Anche Luciano Moggi (nella foto a destra), l’ex dg della Juve al centro del più grande scandalo del mondo del calcio italiano degli ultimi anni, potrebbe tirare un sospiro di sollievo: la richiesta di rinvio a giudizio formulata nei suoi confronti dai pubblici ministeri Giuseppe Narducci e Filippo Beatrice è del 10 luglio del 2007. Va da se che pure questo processo, attualmente in corso dinanzi ai giudici della nona sezione penale del tribunale di Napoli, non vedrebbe mai la fine con l’entrata in vigore della legge che mette i paletti alla trattazione dell’intero iter processuale. A rischio, infine, c’è pure il processo scaturito dal secondo filone d’indagine sull’emergenza rifiuti, quello che ha fatto finire sul banco degli imputati la vecchia struttura del Commissariato di Governo per l’emergenza: per salvare il salvabile, i giudici dovrebbero emettere una sentenza (di condanna o di assoluzione) entro il settembre 2010. Un’utopia se si considera che ad oggi non si è neppure aperta l’istruttoria dibattimentale (a causa di intoppi vari) e che su questo processo si staglia il pericolo di una incompatibilità territoriale che potrebbe determinare il trasferimento di tutti gli atti a Roma con conseguente ripetizione della fase dell’udienza preliminare. Per stare nei tempi, in pratica, ci vorrebbe un miracolo.
In procura, il possibile scenario di azzeramento di anni di indagine su questi tre importanti fatti di cronaca, non piace affatto. E non piace neppure la legge: se da un lato, riconoscono i magistrati, è giusto evitare che i processi si trascinino per decenni, dall’altro lato però si deve mettere la macchina della giustizia in condizione di funzionare velocemente. Ma la domanda che ci pone pensando ai processi Bassolino e Moggi è soprattutto un’altra: è fattibile chiudere un processo di primo grado in due anni come quelli di Bassolino e Moggi dove ci sono oltre un centinaio di testi da ascoltare, e dove le deposizioni - è il caso dello scandalo rifiuti - vertono su aspetti così tecnici che si richiede un livello di attenzione e di approfondimento superiore alla media? Dall’alto della sua esperienza, il capo della procura della Repubblica di Napoli Giovandomenico Lepore, esclude in maniera categorica il completamento nel giro di 24 mesi di un dibattimento della portata di quello dei rifiuti. “Sicuramente non si può chiudere in tempi così stretti - dice Lepore - Anzi, si può anche chiudere ma facendo solo quello tutti i giorni. Il che è impossibile”. Poi il procuratore sposta i riflettori sugli strumenti che la giustizia oggi possiede per funzionare. “Pretendere che i processi non durino in eterno è sacrosanto, ma oggi - sottolinea Lepore -, e parlo di Napoli, con i mezzi che abbiamo, con il personale che abbiamo, sarà comunque impossibile rispettare le scadenze previste dal disegno di legge. Più un generale dico ancora che con le attuali strutture giudiziarie italiane in sei anni non si riuscirebbe a percorrere i tre gradi di giudizio neanche per una contravvenzione”. Dello stesso parere è il procuratore aggiunto Aldo De Chiara, che coordina il pool dei reati contro l’ambiente: “Nei fatti non si fa nulla per rendere più efficiente la macchina giudiziaria. Si impone ai giudici e ai magistrati di fare presto, di procedere più speditamente nelle indagini, nei processi, ma poi non si potenzia mai il motore della macchina”. Per fare un esempio: è come chiedere a chi guida una 500 di andare alla velocità massima di una Ferrari. Praticamente è impossibile.

pubblicato da maga su Cronache di Napoli il 13 novembre 2009

mercoledì 12 agosto 2009

E la procura apre un'indagine. Aquisiti filmati dei colloqui in carcere

NAPOLI- Capire come e perché sia possibile che una decina di esponenti del clan Sarno, tra boss detenuti e gregari in libertà, possa sedere indisturbatA allo stesso tavolo nella sala colloqui di un carcere e avere l’opportunità di pianificare omicidi e di progettare estorsioni. All’indomani delle dichiarazioni choc rese dal pentito Carmine Caniello sugli ‘incontri facili’ nel penitenziario di Secondigliano, la Direzione distrettuale antimafia di Napoli ha aperto un fascicolo di indagine per studiare la modalità dei colloqui, per comprendere se ci siano profili di responsabilità nell’organizzazione del sistema di visite che anni addietro ha permesso al boss Vincenzo Sarno e ai sicari liberi che erano andati a trovare altri parenti detenuti di progettare un omicidio di camorra. Il primo passaggio dell’inchiesta è stata l’acquisizione di una serie di informazioni sui regolamenti dei colloqui sia a Poggioreale che a Secondigliano, nonché il recupero di filmati recenti sui colloqui tra detenuti per studiare i movimenti dei visitatori. Ciò che è emerso in questa fase iniziale di indagine è stata la circostanza che la modalità di organizzazione dei colloqui raccontata da Carmine Caniello vige ancora oggi tanto nel penitenziario di Secondigliano quanto in quello di Poggioreale. Chiara anche l’idea del perché si consente a personaggi detenuti dello stesso clan di stare seduti gli uni accanto agli altri nella sala colloqui del carcere e di poter parlare anche con visitatori che sono andati lì per parlare con un altro galeotto. Ci sono giorni stabiliti per i colloqui (non tutta la settimana è consentito ai detenuti di ricevere i parenti e gli amici), e, laddove cadono più richieste per persone che fanno parte di una stessa famiglia, si tende a riunire il nucleo familiare per ‘smaltire’ il più velocemente possibile il momento dell’incontro.
Lo scenario dei “colloqui facili” nei penitenziari di Napoli ha sollevato non pochi malumori nei piani più alti dell’ufficio giudiziario partenopeo guidato dal procuratore capo Giovandomenico Lepore (nella foto in alto). “Si fa tanto per assicurare alla giustizia i malavitosi e poi nel sistema ci sono delle falle spaventose che regalano ai detenuti ampi margini di manovra anche da dietro le sbarre”, commentano gli inquirenti. E allora come agire per cercare di risolvere il problema? Uno strumento in procura ce l’hanno già, anche se usarlo non è semplice. C’è la possibilità di avanzare una richiesta di divieto di incontro per un detenuto, ma il punto è che l’istanza deve essere vagliata da un giudice e non sempre il parere espresso rispecchia le attese del pubblico ministero. “Occorrono nuove regole”, sussurrano in procura. Ma prima di cambiare lo status quo serve un’attenta lettura dei fatti. Lettura che nell’ufficio giudiziario partenopeo è cominciata pochi giorni fa, quando il procuratore capo Giovandomenico Lepore ha convocato una “riunione operativa” tra alcuni procuratori aggiunti e alcuni pubblici ministeri in forza alla Direzione distrettuale antimafia di Napoli per esaminare alcune questioni ‘critiche’ emerse con le dichiarazioni rese dai pentiti Giuseppe Sarno ’o mussillo e Carmine Caniello. Oggetto del “vertice” è stata anche la possibile “fuga di notizie” sul pentimento di Peppe Sarno accennata dalla moglie del boss diventato collaboratore di giustizia (la circostanza è stata pubblicata da “Cronache di Napoli” nell’edizione del 29 luglio). C’è un avvocato del foro partenopeo sospettato di essersi messo a disposizione della cosca per reperire notizie sullo status di pentito di Peppe Sarno (quando la sua collaborazione non era stata ancora ufficializzata ma ‘annunciata’ nel rione dal figlio del padrino). E con lui è sospettato pure sua moglie, che lavora nella cittadella della legge del centro direzionale: la donna avrebbe avuto la possibilità, per il tipo di servizio che presta, di acquisire informazioni relative alle indagini in corso sulla potente cosca di Ponticelli. Moglie e marito, per ora, non sono formalmente iscritti nel registro degli indagati, ma è solo una questione di tempo: vista la delicata posizione ricoperta dalla consorte del legale, l’accertamento sarà inevitabile.

pubblicato su Cronache di Napoli l'11 agosto 2009
articolo pubblicato da maga

Killer liberi ricevuti da boss detenuti. Summit nel carcere di Secondigliano

NAPOLI - Metti i boss detenuti Vincenzo Sarno, il fratello Pasquale, il cugino Peppe Sarno ’a caramella e Pacifico Esposito seduti l’uno accanto all’altro per un’ora nella sala colloqui dello stesso penitenziario. E metti dall’altro lato del bancone, privo del vetro divisorio, i rispettivi parenti - gente del calibro di Carmine Caniello e Ciro Esposito (sicari di professione) - che hanno prenotato l’incontro con il proprio caro tutti nella stessa giornata. Ne viene fuori un summit di camorra in piena regola. Un vertice in cui si pianificano gli omicidi e si mettono a fuoco le attività illecite da portare avanti. Sessanta minuti di libero confronto tra boss e killer nel corso dei quali i visitatori si scambiano tra loro i posti con facilità, scivolando di un paio di sedie al massimo dalla postazione originaria, per poter parlare con tutti i massimi esponenti della camorra bloccati in galera. Dagli anni Novanta a oggi il “sistema” dei “colloqui facili” in carcere funziona così. Semplice e collaudato. Sfruttato dai capoclan non detenuti in regime di 41bis per non perdere i contatti con la realtà criminale in cui sono nati e cresciuti. Di questo “sistema” i Sarno - e certamente non sono stati i soli - si sono avvantaggiati. Da sempre. Facendosi così beffa dello Stato, della Direzione distrettuale antimafia di Napoli che li ha inquisiti e delle forze dell’ordine che li hanno arrestati.
Lo spaccato scandaloso dei “colloqui liberi” permessi dallo Stato è stato messo a nudo da un pentito della camorra, dal killer col rango di ras Carmine Caniello, che dal 20 luglio scorso è passato a collaborare con la giustizia. L’occasione sfruttata dalla gola profonda per raccontare dell’escatomage studiato dai padrini detenuti per tenere riunioni con i propri gregari è stata quella della ricostruzione dell’omicidio di Gennaro Busiello ’o caino, il marito della prima pentita della periferia orientale di Napoli, Anna Sodano, ucciso dai Sarno per vendetta, perché la compagna (vittima di lupara bianca) aveva osato voltare le spalle alle famiglia. “Il delitto di Gennaro Busiello ’o caino è stato deciso nel penitenziario di Secondigliano da Vincenzo Sarno. Ed è stato deciso durante un colloquio al quale erano presenti più detenuti dei Sarno e più parenti e gregari del clan”, ha spiegato Carmine Caniello al pubblico ministero antimafia Vincenzo D’Onofrio in uno dei primissimi interrogatori reso nelle vesti di pentito. E giù a seguire i dettagli di quel summit di camorra che si è svolto all’interno di una struttura pensata per fermare i criminali e per rieducare chi in passato si è commesso di reati. “Un giorno ci recammo al colloquio a Secondigliano: io per un colloquio con mio suocero Giuseppe Sarno ’a caramella, Ciro Esposito ’o tropeano e Carmine Esposito per un colloquio con il fratello Pacifico Esposito, ed altri appartenenti al clan, tra cui anche i familiari di Vincenzo Sarno, per parlare appunto con Vincenzo Sarno - ha raccontato Carmine Caniello - Il colloquio si svolgeva contestualmente tra tutti noi, i quali eravamo seduti lungo un bancone. Da un altro i familiari e dell’altro i detenuti. All’epoca ricordo che tra questi ultimi vi era anche Antonio Ippolito. Nel parlare con mio suocero e con Pacifico Esposito, costoro già avevano preavvertito me e Ciro Esposito che Vincenzo Sarno ci avrebbe chiesto di uccidere Gennaro Busiello, mostrando peraltro la contrarietà a quella decisione. Puntualmente, dopo pochi minuti, io e Ciro Esposito venimmo chiamati da Vincenzo, il quale, come ci era stato anticipato, ci chiese di uccidere Gennaro Busiello ’o caino, in quanto temeva che egli potesse tornare a collaborare con la giustizia”. Nessuna remora, dunque, da parte di Vincenzo Sarno nel stare ordinando in un colloquio in carcere la morte di una persona. Nessuna preoccupazione di telecamere o possibili cimici, nessun timore neppure di essere “ripreso” dagli addetti al controllo degli incontri. Il boss si sentiva al sicuro e i suoi parenti detenuti pure. Al punto tale che quella direttiva scatenò una vera e propria discussione. “In quella occasione Pacifico Esposito e Giuseppe Sarno ’a caramella ci fecero capire che non dovevamo accontentare Vincenzo in quella richiesta - ha aggiunto il trentaseienne Carmine Caniello -, in quanto loro ritenevano Busiello ancora un amico. Dopo la ritrattazione, infatti, Busiello era tornato a vivere nel rione”. Accadde così, che a causa della divergenza di vedute tra i ras del clan, i killer designati non eseguirono la missione di morte. Temporeggiarono e vennero per questa ragione anche ripresi dall’allora reggente della cosca, Luigi Piscopo ’o pazzignano (consuocero di Ciro Sarno ’o sindaco), che all’epoca era detenuto in regime di arresti domiciliari. Rimproverati e destituiti dall’incarico. Ad assassinare Busiello furono altri esponenti della cosca, gente con la quale ’o caino aveva aperto una piazza di spaccio col consenso di Luigi Piscopo. Gli amici lo attirarono in trappola, lo condussero nelle zone di Gianturco e qui gli diedero la morte (“In un primo momento la vittima era riuscita a scappare, perché una pistola si era inceppata. Ma poi inseguita era stata prima picchiata e poi uccisa con un’altra arma, almeno così ritengono”, ha riferito Carmine Caniello). Proprio come voleva Vincenzo Sarno. Proprio come fu ordinato dal padrino in un clamoroso summit di camorra che si è svolto tra una decina di persone appartenenti allo stesso gruppo criminale (tra liberi e detenuti) in una struttura penitenziaria.

pubblicato su Cronache di Napoli l'11 agosto 2009
articolo scritto da Manuela Galletta

giovedì 11 giugno 2009

Omertà dilagante, le silenziose vittime del clan Vollaro

PORTICI - C’è il fioraio che lavora al cimitero, e pure l’ambulante che sbarca il lunario con l’attività mercatale. E poi ci sono i commercianti e gli imprenditori. Sino ad arrivare agli ormeggiatori del porto del Granatello. Il campionario delle vittime del racket targato clan Vollaro è assai variegato, anzi non risparmia alcuno. Neppure i “poveri cristi”, come ha notato e fatto notare il procuratore capo Giovandomenico Lepore nel corso della conferenza stampa convocata per illustrare i contenuti dell’operazione “San Ciro”. Pagano tutti, ma pagano poco. E alla fine nessuno denuncia. Per una questione di convenienza, perchè in fondo - giusto per fare un esempio concreto - per chi lavora al mercato, 'pagare' 50 o 100 euro a settimana non è poi così una così grave perdita, di quelle che portano sul baratro della disperazione. Né fa molta differenza versare qualche spicciolo per avere finanche l’acqua di mare, o scegliere un determinato fornitore di cartoni delle pizze. E allora tutti zitti, tutti disposti a mettere mano al portafogli. Tutti addirittura quasi “riconoscenti” nei confronti di quei malavitosi che a scadenze precise andavano a rivendicare il dazio, e che in qualche occasione concedevano pure lo sconto. Ci sono vittime che ai loro aguzzini danno persino del tu, che cercano di guadagnarsi la loro amicizia (“Allora dopo tanto tempo siamo amici o no?”, dice il titolare di un bar a uno dei figli dei Vollaro coinvolto nell'inchiesta). Roba da far impallidire. Eppure è accaduto. “Purtroppo questa storia mi impone di fare una considerazione molto amara: c'è stata una straordinaria omertà in questa vicenda - ha commentato ieri mattina il procuratore aggiunto Rosario Cantelmo - Nessuno, nessuno ha voluto parlare. Il che è un segno inquietante, come se la società civile in questo territorio si fosse ripiegata su stessa”. Volente o nolente, hanno tutti “protetto” il clan. E al tempo stesso lo hanno arricchito. Basti pensare che, seppur in via approssimativa, i carabinieri hanno stabilito un guadagno di tre milioni di euro all’anno solo nel settore estorsivo. Numeri che lasciano basiti, soprattutto se paragonati alle “modeste” cifre di denaro pretese da commercianti e imprenditori: il “contrasto” tra incassato e devoluto, infatti, rende bene l’idea del controllo pressocché totale da parte del clan di qualsiasi attività commerciale che si svolge sul suolo porticese. “E’ stato possibile stilare un vero e proprio tariffario delle estorsioni - ha spiegato il generale dei carabinieri Gaetano Maruccia - I commercianti pagavano le classiche tre rate, a Natale, a Pasqua e a Ferragosto. Ogni rata oscillava tra i 5mila e i 7mila euro. Per le imprese, invece, si chiedeva una tangente pari al 5% dell'importo dei lavori, mentre gli ambulanti dovevano versare la modesta somma di 50 o 100 euro alla settimana”. Mazzette non dalle troppe pretese, e forse è anche per questo che i Vollaro hanno dovuto fare ricorso all’uso della forza in rarissime occasioni. Meglio il dialogo. E di episodi in cui “vittima e carnefice” si sono trovati faccia a faccia gli investigatori ne hanno scoperti parecchi grazie allo strumento delle intercettazioni telefoniche. Emblematici sono una serie di colloqui intercorsi nel giugno del 2005 tra un commerciante e Antonio Vollaro. Dopo una melliflua attestazione di affetto (“Voi siete sempre nel cuore mio”), il commerciante chiede al ras protezione nei confronti di tale Alfredo, che gli stava creando problemi “in casa”, non mancando di aggiungere che l’indomani mattina gli avrebbe portato altri “cinque”. Vollaro a sua volta, anziché mostrarsi risentito perché l’altro da lungo tempo non si era fatto vivo (la “delusione” era già stata espressa con un messaggio inviato col cellulare), si mette subito a disposizione (“Voi basta che mi chiamate tra due minuti”) ed, interpretando con grande efficacia il ruolo di padrino, interviene in suo favore. Il 18 giugno 2005, infatti, Alfredo viene ammonito: “Raffaele lo sapete è un caro amico e un buon uomo, vediamo di sistemare pure questa situazione, lunedì parliamo da vicino”, dice Vollaro atteggiandosi a “un vero ‘Sindaco del Rione Sanità’”, scrive il giudice per le indagini preliminari Eduardo De Gregorio del tribunale di Napoli nell’atto d’accusa al clan Vollaro. “Una scena da film - prosegue la toga -, che però intride di significato rilevante nel senso proposto dall'accusa la relazione tra Vollaro e il commerciante essendo ben coglibile nelle parole e nel tenore della conversazione il rapporto tra estorsore e vittima, pur se nella specie non connotato da violenza e/o minaccia ma da una esplicita richiesta di protezione, che costituisce in ogni caso riconoscimento del prestigio criminale di Vollaro”. Una fotografia fedele e quanto mai attuale di quello che è oggi il sistema estorsivo targato Vollaro. Un sistema che, forse, da ieri mattina ha subito qualche serio contraccolpo. “Tra i destinatari dell’ordinanza - ha concluso Maruccia - ci sono molti esponenti del clan che erano impiegati nella riscossione delle tangenti. Speriamo di essere riusciti a dare più serenità ai commercianti di Portici”. Già, speriamo.

pubblicato su "Cronache di Napoli" l'11 giugno 2009
articolo a firma di Manuela Galletta

venerdì 5 giugno 2009

La falsa avvocatessa tra debiti e bugie

NAPOLI - Ha mentito per più di dieci anni, raccontando a tutti di essere un avvocato. A padre, madre, marito e amici. Non solo, anche a chi si rivolgeva al suo studio. Centinaia di clienti guidati alla vittoria da una donna minuta e dalla parlantina sciolta. Duecentocinquanta, circa le cause vinte. Tranne l’ultima: persa, volontariamente dice lei, perché temeva di essere stata scoperta dal collega della controparte. Paura che le è costata un milione di euro. A tanto ammonta il debito accumulato per pagare chi, invece, quella causa sapeva di averla vinta.

Indossava bene la toga, anche se non ne aveva diritto, visto che non era in possesso di nessuno dei titoli necessari. Niente abilitazione alla pratica forense perché la laurea in Giurisprudenza, Giuditta Russo, 39 anni, da Pompei nel Napoletano, non l’aveva conseguita. Nessun esame, a fronte di anni di studi intensi culminati con la preparazione di una tesi in diritto penale. Tema: il 416bis e le associazioni a delinquere di stampo mafioso e camorristico. Alla discussione dell’elaborato lei non volle amici e parenti. E nessuno andò. Neanche lei. Salvo poi incontrarsi in un ristorante per festeggiare la laurea ottenuta col massimo dei voti. Al papà operaio metalmeccanico e alla mamma casalinga bastò una telefonata di Giuditta che comunicò, tra le lacrime, il risultato accademico appena conseguito. Brillante, tanto da entrare dalla porta principale di un noto studio legale per svolgere il consueto praticantato. Sicura di sé, visto che spadroneggiava nelle aule dei tribunali italiani vincendo cause su cause.

Cinque anni di reclusione le ha rifilato lunedì sera il giudice monocratico del tribunale di Torre Annunziata. Quattro erano stati invece richiesti dal pubblico ministero. Esercizio abusivo della professione forense, di quella di consulente finanziario e truffa i reati accertati. Anche se proprio questo punto è quello più difficile da digerire per Giuditta. «Quanto ho fatto viene giuridicamente qualificato come truffa, - spiegò l’imputata nell’ultima udienza - ma tale reato moralmente non mi appartiene. Io non ho trattenuto niente per me, non l’ho fatto per danneggiare qualcuno. Ora sto cercando di restituire a tutti quello che hanno perso, e spero anche di riuscire a recuperare quello che ho perso io». Ricorrerà in Appello, anche se adesso non se la sente di parlare. «Parleremo dopo aver letto le motivazioni della sentenza - sottolinea Elio D’Aquino, avvocato difensore - ma comunque posso annunciare che presenteremo ricorso in Appello. Anzi, sono sicuro che i giudici di secondo grado riformeranno la sentenza». E la sua assistita? «Forse lei - continua il legale - si aspettava una sentenza più mite. E’ serena, ma l’ho sentita delusa perché pensa di non essere stata capita dai giudici».

Ancora. Come quando per la prima volta si presentò all’università Federico II per sostenere l’esame di diritto privato. Notte insonni sui libri e una buona preparazione. Eppure, quando arrivò il suo turno, rimase ferma, immobile. Non rispose all’appello del professore. Quando tornò a casa trovò la sua famiglia sul pianerottolo: «Ventotto, - sibilò - ho preso ventotto». Dal diritto civile a quello commerciale, dalla filosofia del diritto fino alle «famigerate» procedure. Tutti studiati, nessuno sostenuto. Anche se non si direbbe, visto che in aula l’«avvocato» Giuditta Russo era un fenomeno. Uno studio aperto a Pompei, un altro nel Modenese. Su e giù per il Belpaese ad arringare platee, convincere giudici e incassare onorari. «Sempre sotto le tariffe minime - spiegò - nel timore che qualche cliente potesse rivolgersi all’Ordine degli avvocati», e scoprire l’inghippo. Intanto si era sposata, nel 1999. Suo marito, o meglio l’ex marito visto che quando ha saputo tutto l’ha lasciata, è impiegato del ministero della Giustizia.

Scherzi del destino. Come quello che il fato le tirò in un’aula del Tar della Campania. Perse la causa, la prima, per paura che il suo collega potesse controllare l’albo e scoprirla. Ma ai clienti non disse nulla, anzi. Spiegò di aver vinto, come al solito. Centoventimila euro di indennizzo che i due patrocinati dovevano incassare. E i soldi? Giuditta non si perse d’animo. Li chiese ad un amico prospettandogli investimenti con interessi del 170%. Trimestrali. Incassa il bonifico e paga i clienti. Passano tre mesi, per pagare l’amico chiede un prestito ad altro conoscente e così via. Una catena di Sant’Antonio della disperazione. Una sera di settembre del 2005, bussa alla porta del presidente della Camera penale di Torre Annunziata. Quindici anni di bugie riassunte in tre ore di sfogo, lacrime e pentimento. E’ il primo passo. In Procura, dopo la sua confessione, si forma un fascicolo a suo nome alto quasi un metro. Su una delle carte c’è scritto «Nulla da aggiungere a quanto riferito dall’indagata». È il riconoscimento che ha detto la verità. E l’inizio di una nuova vita.

pubblicato su La Stampa il 3 giugno 2009
articolo a firma di Antonio Salvati

Trent’anni, due figli, licenza media Ecco chi finisce in cella in Campania

NAPOLI - I nuovi arrivi, nelle car­ceri, li chiamano «ingressi dalla liber­tà». Le ultime statistiche elaborate dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, quelle relative all’anno di giustizia 2008, rivelano che nelle celle della Campania di «ingressi dalla libertà» ce ne sono stati 10.760 in un solo anno.
E, sempre quelle statisti­che, disegnano anche la figura del de­tenuto- tipo campano: maschio, trent’anni, licenza media, sposato, due figli.

Trenta «ingressi» al giorno

Le cifre, innanzitutto. Ché quelle consegnate agli archivi statistici dal Dap fotografano un’immagine scon­fortante. Ogni giorno nelle carceri del­la Campania entrano quasi 30 nuovi detenuti, Natale, Pasqua e Ferragosto compresi. Sono 10.760 gli «ingressi dalla libertà» registrati dal 1 gennaio al 31 dicembre 2008, peggio va solo in Lombardia, dove nello stesso periodo si contano ben 15.648 nuovi detenuti. Le diciassette strutture nella regione (le carceri di Ariano Irpino, Arienzo, Avellino, Benevento, Carinola, Eboli, Lauro, Napoli Poggioreale, Napoli Se­condigliano, Pozzuoli, Sala Consilina, Salerno, Santa Maria Capua Vetere, Sant’Angelo dei Lombardi e Vallo del­la Lucania e gli ospedali psichiatrici giudiziari di Aversa e Napoli Sant’Efra­mo) hanno accolto in un anno 9.930 uomini e 830 donne: di questi — in as­soluta controtendenza con il dato na­zionale decisamente più elevato — so­no stranieri 245 donne e 1.956 uomi­ni. L’analisi rivela che, a differenza di (8.538) e Lazio (6.624) — distribuiti nelle carceri delle venti regioni italia­ne, dalla valle d’Aosta (6) alla Sicilia (365).

quanto accade nelle altre regioni, la maggior parte dei detenuti che finisco­no in cella in Campania provengono dalla stessa regione: nel 2008 sono sta­ti 5.871, tanto per fare un confronto basti pensare che in Lombardia solo un terzo dei detenuti (5.531) è lombar­do. E, ancora, la Campania è la regio­ne che presenta il maggior numero di cittadini detenuti in Italia: sono 9.465 in totale — più di quelli di Lombardia Calcolati al netto di ingressi, uscite e trasferimenti ad altri penitenziari, i detenuti in Campania al 31 dicembre 2008 erano 7.185. E i dati del Dap, ol­tre a offrire un quadro aggiornato del

Chi va in cella movimento della popolazione carcera­ria, tracciano anche l’identikit di quel­le 7.185 persone dietro le sbarre. Il de­tenuto- tipo è un uomo (96.1% dei ca­si), ha tra i 30 e i 34 anni (1.241 perso­ne), è coniugato (2.702), ha due figli (1.016), è munito di licenza di scuola media inferiore (1.455) ed è disoccu­pato (785 sul totale, ma per 5.588 non è stata rilevata la condizione lavorati­va). Complessivamente la fascia d’età «critica» per chi finisce in carcere ( e che non è detto abbia necessariamen­te commesso un reato, vedere alla vo­ce assoluzioni) è quella compresa tra i 30 e i 40 anni, con 2.465 detenuti. E, se la maggioranza ha una moglie (o un marito), è alto anche il numero di single (2.508), così come rilevante è il dato di chi finisce in cella pur avendo un lavoro (568 persone) e di ha avuto comunque un’istruzione, seppur mini­ma: i detenuti privi di titolo di studio sono 104, mentre quelli analfabeti so­no appena 49. Quaranta sono anche laureati. E gli stranieri? Qui, in contro­tendenza con il dato nazionale, i nu­meri sono davvero bassi. Erano, sem­pre al 31 dicembre 2008, 906 in tutto: nelle carceri napoletane ce n’erano 259 a Poggioreale (il 10.39% del tota­le) e 99 a Secondigliano (8.37%). La gran parte viene dall’Africa (479 dete­nuti), seguono Europa (355), Asia (37) e America (35).

Le pene da scontare

Ma quelli che sono in carcere, che ci stanno a fare? La stragrande maggio­ranza — rivelano le statistiche del Dap — è lì ad attendere una pronun­cia definitiva. E sì, ché su 7.185 dete­nuti, solo 2.555 sono stati condannati con sentenza passata in giudicato (gli «internati» sono 371). Gli altri, inve­ce, sono ancora lì a guardare il calen­dario: 2.401 attendono che si pronun­ci il giudice di primo grado, 1.010 che intervenga l’appello, 434 che la Cassa­zione emetta una sentenza. Sono 3.845 in tutto. Cui — a voler essere precisi — vanno aggiunti anche i 382 che in cella chiamano «imputati mi­sti »: sono quelli cioè che, oltre ad aver avuto una condanna definitiva, resta­no comunque in attesa di giudizio per altri reati. E, a scorrere l’elenco della pena residua da scontare, si scopre an­che che di quei 2.555 detenuti definiti­vi la stragrande maggioranza deve (o, meglio, doveva alla data del 31 dicem­bre 2008) restare in carcere per non troppo tempo. Circa la metà — 1.250 reclusi — ha una pena residua inferio­re a un anno (759) o a due (491). E an­cora: 328 reclusi devono scontare me­no di tre anni, 256 fino a quattro, 135 al massimo cinque. Solo 36 detenuti devono restare in carcere per ancora vent’anni. Altri 157, invece, l’uscita del carcere non la imboccheranno mai (almeno sulla carta). Sono gli ergasto­lani. Quelli che sotto la voce «fine pe­na», nell’ordine di esecuzione, ci tro­vano scritte solo tre lettere. «Mai».

pubblicato da "Il Corriere del Mezzogiorno" il 29 maggio 2009
articolo scritto da Gianluca Abate